L’anoressia: tra perdita del Sé e nuova moda.

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00lunedì 29 ottobre 2007 08:22
Scritto da: Dottoressa Giovanna Rodorigo
Appartiene al patrimonio collettivo moderno l’immagine della fotomodella che falca le passerelle dell’alta moda indossando pelle ed ossa. E non finisce qui. Quotidianamente subiamo un continuo bombardamento mediatico di immagini che narrano di connotazioni fisiche inevitabilmente associate a livello sub-liminale a ciò che è bello, ammirato, necessario per valere. Sembra quasi che si sia radicata una convinzione generale per cui la magrezza equivalga al successo in campo sociale e nell’ignoranza comune il termine “anoressica” subisce continui abusi facendosi talora semplice sinonimo di magrezza eccessiva.

Se è allora polemica contro gli stilisti per l’esagerata richiesta di taglie sotto la quaranta sia per l’erroneo messaggio che in tal modo trasmettono, sia per le richieste implicite che questo comporta per la stessa categoria delle modelle, sembra ci si sia dimenticati che l’anoressia è un grave disagio psicologico che non sta affatto ricevendo l’adeguata attenzione scientifica che merita.

Dal greco anorexia, mancanza di appetito, l’anoressia nevosa si contraddistingue per la ricerca spasmodica, energica ed ossessiva della magrezza da chi ne è affetto, accompagnata dall’onnipresente irrealistico terrore di ingrassare determinante il conseguente rifiuto del cibo. Nelle donne dopo il menarca si accompagna ad amenorrea per almeno tre mesi consecutivi, alla percezione distorta della propria immagine corporea e all’interpretazione cognitiva erronea degli stimoli provenienti dal corpo. Essa può certamente dirsi un serio problema di interesse pubblico non soltanto per l’aumento della sua incidenza, ma soprattutto perché presenta uno dei più alti tassi di mortalità rispetto ad ogni altro disordine psichiatrico: si parla di una percentuale di pazienti che muoiono che va dal 6 al 20, a causa di disfunzioni elettrolitiche, infezioni legate all’aumento della vulnerabilità e in secondo luogo all’inedia o al suicidio.

Diversi studi epidemiologici internazionali sembrano concordare sulla prevalenza della patologia intorno allo 0.2 - 0.8% sulla popolazione femminile; il rapporto maschi – femmine stimato è di 1: 9; in base a questi dati le previsioni stabiliscono che su 100.000 individui ogni anno si presenteranno 4-8 casi di anoressia. Occorre poi tenere presente che non sempre è diagnosticabile un quadro clinico puro, sempre più di frequente ci si trova dinanzi a delle sindromi definite “miste”, specie quelle che si manifestano nel periodo adolescenziale, da cui discende, tra l’altro, il maggiore interesse nel campo dei disturbi alimentari.

A partire dagli studi epidemiologici di Lewis Hill e di Sten Theander del 1970, che esaminarono i dati di tutti gli archivi dei dipartimenti medici e psichiatrici delle due cliniche maggiori del sud della Svezia, venne fuori che in un arco temporale di soli 30 anni il disturbo aveva mostrato un’incidenza in notevole ascesa, tale da essere definito epidemico. Fu Richard Gordon nel 1991 a parlare dell’anoressia come di un disturbo etnico prevalente nelle popolazioni occidentali. Con il termine “Westernisation” in seguito si è voluto indicare l’equivalente fenomeno crescente in alcuni paesi orientali caratterizzati da uno stile di vita prettamente occidentale: tra gli adolescenti di basti pensare che a Singapore i disturbi del comportamento alimentare sono al terzo posto tra quelli più comuni, dopo l’asma e la depressione, associati alla crescente insoddisfazione per il corpo.

Ma chi sono le anoressiche?

In molti casi la malattia si manifesta in quelle descritte dalla stessa famiglia di appartenenza come brave bambine, tenere creature accondiscendenti, silenziose, educate e compiacenti, specie verso le figure genitoriali, che sembra che siano incappate in una trasformazione radicale, tanto fisica che comportamentale, con l’avvento della pubertà tale da renderle irriconoscibili. Da fragili e timide bambine, le pazienti mutano in giovani donne solitarie e scontrose, intente a far crescere abbastanza spine sul loro stelo per tenere a distanza chiunque le volesse avvicinare: abbandonano le amicizie e non ne fanno di nuove, raramente hanno o hanno avuto delle esperienze amorose profonde e significative, mentre è probabile abbiano vissuto amori del tipo platonico nella sola fantasia. Tutti i pensieri sembrano ruotare fondamentalmente intorno alla convinzione di poter contrastare la spinta fisiologica verso l’aumento del peso corporeo al fine di poter raggiungere il sottopeso, perdere del peso o comunque mantenere un peso costante: l’importante è non guadagnarne mai in eccesso.

“…Sono in quarta superiore e sono una balena. Occupo troppo spazio, uno spazio che non merito. Io non merito di stare al mondo…”1. Questo passo tratto dal libro autobiografico di una ex-anoressica sintetizza in poche parole il dramma immenso dell’anoressia: l’autostima, l’amore di sé, sono proporzionati infatti al peso che la paziente porta addosso e al grasso che riusce ad eliminare in solitudine.

La bassa autostima, l’assenza di fiducia nell’altro, la forte spinta al perfezionismo, l’adozione di ideali di bellezza e comportamento utopici, connotano una personalità premorbosa tipicamente appartenente all’anoressica caratterizzata dall’impossibilità di abbandonare il controllo di sé e di limitare la propria libertà, oltre che la continua sfida e il rischio che ciò determina, la rigidità comportamentale e la ritualità ossessiva, associate ad un pensiero dicotomico estremizzato e alla negazione del sintomo. La stessa ricerca spasmodica del controllo si accompagna all’inevitabilità di farne a meno anche qualora la paziente si accorge che sta andando incontro all’autodistruzione. E’ così che il corpo ridotto all’osso si fa portatore di una sofferenza impronunciabile, le cui origini vanno cercate nell’infanzia ma che si scatena prevalentemente nel tempo dell’adolescenza: manca la possibilità di affrontare e superare adeguatamente il processo di formazione di un’identità personale e sessuale che sia stabile e definiva.

E’ proprio questo il paradosso dell’anoressia, quello cioè della sfida continua alla morte raggiungendo spesso anche l’emaciazione estrema come tentativo della di potersi sentire così in diritto di vivere. Agli sconvolgimenti psichici e somatici dell’adolescenza, l’anoressica non sa che rispondere se non con lo sviluppo della patologia, essendo inattuabile l’affronto di un compito evolutivo di separazione-individuazione, di riconciliazione dell’Io psichico con l’Io corporeo, dell’Io del passato con quello del presente. L’identità di anoressica è considerata in questa prospettiva teorica e dinamica come la conseguenza dell’adozione di un falso Sé, di una maschera che copre il vuoto identitario, per la rinuncia arcaica e prematura alle reali e profonde esigenze al fine di adeguarsi per compiacenza alle richieste dell’ambiente. Ne consegue un strutturazione del Sé superficiale, orientato socialmente, per mezzo del quale l’anoressica evita il rischio di non vedersi rispecchiata nello sguardo materno, riesce a sentirsi esistente, ma certamente si priva dell’originalità e dell’autenticità: il prezzo da pagare per la catastrofe interna avvenuta.

Ma allora, la società e la moda cosa c’entrano con l’anoressia?

Come western culture bound syndrom, certamente l’anoressia si lega alle vicende che hanno interessato lo stile di vita delle popolazioni occidentali, in primis le evoluzioni della strutturazione della famiglia e le ripercussioni dell’economia moderna.

Uno sguardo storico: lo sviluppo economico accompagnato dall’abbandono delle campagne e l’affollamento progressivo nelle prime città, ha segnato infatti progressivamente la scomparsa della famiglia a stampo patriarcale, quella numerosa e aggregata, lasciando il posto a quella nucleare, moderna, in cui spesso entrambi i genitori lavorano fino a tardi ed i figli sperimentano prima del tempo sentimenti di solitudine. In questo quadro che ritrae una famiglia degenerata, isolata, in cui scarseggiano anche i momenti per la verbalizzazione di eventuali disagi, ogni problema finisce inevitabilmente con l’assumere proporzioni più grandi, imputabile all’impossibilità di disporre sia di punti di vista altri, sia della semplice comunicazione. Manca spesso la rete sociale che funge da sostegno e orientamento. Inoltre, nell’evoluzione storica della famiglia certamente la donna può dirsi l’assoluta protagonista dei veri cambiamenti: relegata nelle mura di casa a svolgere i compiti impartitele dalla sua funzione di domestica a tempo pieno e priva di qualsiasi diritto se non con un ruolo marginale sulla scena pubblica, la donna della famiglia patriarcale sintetizza il completo disinvestimento del potere decisionale affidato in toto all’uomo di casa. Con l’avvento dei conflitti mondiali le cose cambiano radicalmente: la donna è chiamata per necessità ad intervenire in campi prima a lei proibiti, in alcuni casi provvedendo lei stessa al mantenimento della prole. Tuttavia ristabilitasi la tranquillità nel dopoguerra, viene nuovamente invitata ad uscire di scena. E’ così che si mettono in atto i primi movimenti femministi rivendicando la parità dei diritti. Le conquiste che seguono e che incrementano progressivamente nel tempo, segnano definitivamente la creazione di un prototipo di donna che deve assurgere al ruolo di lavoratrice, indipendente e in grado di far carriera, sicura di sé e vincente, insieme al ruolo di moglie e di madre.

A tutto ciò si accompagna una netta rivisitazione dei canoni di bellezza e accettazione relativi alla propria immagine: una donna che vive nel pubblico, che deve dimostrare di essere in grado di farcela da sé, che deve piacere ed essere ammirata non può certo presentarsi con un corpo rotondo, spesso troppo, e con un vestiario eccessivamente coprente come quello tipico della donna del dopoguerra. Tutto viene allora ridisegnato nel particolare: le gambe devono essere dritte, lunghe e affusolate, la vita stretta e il corpo filiforme. Tende dunque a scomparire progressivamente l’immagine del corpo che richiama la maternità e l’abbondanza. La femminilità tradizionalmente accettata è soppiantata da un corpo sempre meno ingombrante e più dinamico, che sfocia nell’androginia specie intorno agli anni 60’ in cui è di moda l’aspetto adolescenziale e prepubere. Ancora un cambiamento: oggi, grazie alle nuove tecnologie in campo chirurgico che rende possibile la modificazione materiale del proprio corpo, la manipolazione ossessiva, monta seni prosperosi su busti esili, realizzando una ricongiunzione tra il vecchio modello di donna e quello moderno.

Alla luce di quanto esposto, appare chiaro che l’anoressia ha origini e produce delle conseguenze comportamentali patologiche ben diverse da ciò che è imputabile semplicisticamente alla pura imitazione della modella del momento, tuttavia non è affatto trascurabile il bombardamento di immagini distorte che la nostra società adopera soprattutto nei confronti delle categorie più sensibili come quelle dei bambini e degli adolescenti e tra questi, su coloro che se vogliamo possono definirsi in un certo senso ancora più a rischio: si realizza una sorta di assuefazione nell’associare la desiderabilità, il fascino e il successo in modo erroneo alla magrezza. Se si considera poi che coloro che soffrono di disturbi alimentari vivono esclusivamente in virtù del raggiungimento del loro essere ideale tipicamente emaciato fino all’estremo è chiaro come canoni di prestanza fisica comunemente ritenuti i più vicini a questa perfezione siano oggetto della loro attenzione in modo patologico. E’ per questo che preferirei adottare una prospettiva che guardi all’anoressia non come un fenomeno mediatico o semplicemente culturale, ma come un disturbo prettamente occidentale pur sempre individuale, che sintetizza e rappresenta il mito del fallimento del processo di costruzione identitario tanto della paziente tanto della società moderna, e che, esso stesso, sta prendendo le pericolose sembianze di una moda, specchio della deludente relazione con una madre-società non sufficientemente buona.



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Sitografia

Levey R, Williams-Wilson B., Anorexia Nervosa, reperito su: www.emedicine.com.




1 Lecchi C., Scambi di binari. Il mio tunnel dell’anoressia, Gruppo Edicom, Milano, 2005.
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